Mi vesto dei colori accesi
che hanno le foglie morte
così,
tanto per far credere della Bellezza.
Socchiudo gli occhi
e faccio come loro
mi lascio sospingere
all’apparenza del dondolio
che porta ai lati di insopportabili e concave
sensibilità.
I corvi gli volano sopra, poco più in alto disegno cerchi nell’aria osservando la scena.
Decine di penne si staccano dalle ali nere e gracchianti, cadono al suolo, andrò a prenderle quando sarà il momento.
Sono pronto ad andarmene lontano con il suo ultimo respiro in tasca, devo solo decidere quando dargli la fine.
Già, perché ho la sua esistenza sulla punta delle labbra, il mio sguardo sorride leggendo la paura disegnata nel suo.
Non ride più, è un condannato con la schiena a terra e braccia tese al cielo, le mani stringono una corda che ho legata al collo, con le ultime forze concesse cerca di tirarmi giù.
Non riesce, non può più farlo, sente l’odore pungente della sconfitta, lui, che si credeva invincibile.
Il suo stupore è ossigeno che riempie i polmoni, lo respiro a fondo, mi rigenera.
Chiudo le ali di cera che il sole di agosto non è riuscito a sciogliere, sono in picchiata.
Supero i corvi, supero l’aria, supero il tempo e lo spazio.
Ho le labbra a qualche centimetro dal suo orecchio, la sentenza è matura.
“Tu non esisti”.
Il suo ultimo grido disperato rompe le nuvole, cadono pezzi di cielo, la terra si crepa, l’orizzonte da lui dipinto scompare.
Quel corpo ora è cenere spazzata dal vento, la corda è dissolta.
Raccolgo le penne, troverò sulla strada foglie da scrivere.
L’eroe è morto, sono libero di andarmi a cercare.
Camminiamo scalzi sull’asfalto di Roma
Giochiamo una domanda a testa verso il fondo
dove possiamo accarezzarci cicatrici
Calpestare rami vetri rotti spine rischiare
Dal Colosseo a viale Glorioso su per il Gianicolo
La strada spaccata dalle radici dei platani
La tua mano dietro la testa quando ci siamo dati i baci sulla guancia
E speravo di sbagliare ad appoggiare le mie labbra
fermarmi a piazza Garibaldi con te addosso
Roma che ci fissa da là sotto
Sliding doors quale futuro avrebbe atteso
Il cappellaio matto il sogno americano
Suona la campana mezzanotte e devi dirmi addio
Canticchio frasi per te che evaporano come incenso
Ci sfioriamo con le tasche piene di terra e dollari d’argento
Tracce nella polvere rotoliamo come dadi sul fondo della strada
La piazzetta il campanile il mio cuore storto
I tuoi capelli che brillano tra le mie dita
La campana bianca l’ultimo rintocco appeso a un cappio.
Mezzanotte e non riusciamo a dirci addio.
Che ne sarà
della mia fede
lo capirò dalla mia sete,
che storie hai
secolo muto?
Eccomi qui:
avrai il tuo Bruno.
Ragazzo mio
la storia è carta
I’errore insegna la vita canta,
ragazzo mio
il boia ha un figlio
fa quel che deve per dargli il meglio.
Fra tanti guai
non è il mio male
avere un dio per ogni fame,
brucerò io
brucia l’aurora
ragione tua: ragione nuova.
È l’eresia
che t’innamora
la mente va l’ anima vola
ragazzo mio
la morte è un sogno
accetta il fuoco porta il tuo segno.
Cammineremo
lotteremo
e qualche volta cadremo
La strada non è facile
ma sappiamo qual è
quella giusta
Di un solo abbraccio
potremmo vivere
Di una sola emozione
potremmo risplendere
Non credere a chi dice
“non si può”
Non smettere di credere
alla tua voce interiore
La verità
è soltanto un antipasto
Noi dovremmo pensare
al primo, al secondo
e al contorno
Cibo per la mente
la tua presenza
Meriteresti parole
di un professore
ma faccio vincere l’istinto
Cammineremo, lotteremo
e per ogni caduta
sarà un trionfo
nell’idea di vivere
esattamente come vogliamo
Dammi la mano
sta per partire la musica
Improvvisiamo un ballo lento
Poi chiudiamo gli occhi
e iniziamo a correre
Corriamo
corriamo, liberi
verso i colori
Ci troviamo in un bel dipinto:
noi siamo i pittori.
Non temere il tempo del silenzio
quando sei tu l’unico interlocutore
l’imbarco e l’approdo
del dire e del sentire.
Stai bene nei rumori, negli schiamazzi
in mezzo a tanti sé.
Le voci di fuori diventano anestetico
per non percepire il vuoto di dentro.
Ti sembra sterile il tempo del silenzio
sarà per questo che lo fuggi
ma è proprio sotto la coltre dell’inverno
che il seme si prepara
a dare i frutti.
Ti piace salire, andare in alto
ma non sai che per raggiungere
le vette più imponenti
bisogna scendere
inoltrarsi nelle profondità
diventare esploratori
togliere ogni maschera
e raggiungere quel vuoto
che scoprirai pieno di verità.
Colmo di te.
E della tua unicità.
Il grande poeta ha avuto successo.
Lo ha avuto soprattutto da morto.
Il grande poeta ha avuto successo.
Ciò che nel mondo viene pensato come il vero successo.
Il grande poeta ha avuto successo.
Questo successo è fondamentalmente un’isteria degli altri.
Il grande poeta ha avuto successo.
Adesso che è morto non può neanche sapere fino a che punto.
Il grande poeta ha avuto successo.
Eppure è proprio così che diceva e prevedeva: il successo è fondamentalmente un’isteria degli altri.
Il grande poeta ha avuto successo.
Adesso che è morto c’è qualcuno che va a spulciare tra le sue carte.
Il grande poeta ha avuto successo.
Adesso che è morto c’è qualcuno che sarà dotato molto più di ammirazione che di rispetto.
Il grande poeta ha avuto successo.
Gli studiosi curiosi furiosi trovano tra le sue carte cose scritte e poi strappate.
Il grande poeta ha avuto successo.
Gli studiosi curiosi furiosi riattaccano i fogli col nastro adesivo e ricompongono le pagine scartate.
Il grande poeta ha avuto successo.
Gli studiosi curiosi furiosi trovano libri appartenuti a lui e in ultima pagina spesso c’è qualche embrione di verso scritto a matita e poi cancellato.
Il grande poeta ha avuto successo.
Gli studiosi curiosi furiosi si mettono a comparare ufficiali versioni con grafitici embrioni.
Il grande poeta ha avuto successo.
Il grande successo si è già messo in moto e sta lavorando contro di lui.
Il grande poeta ha avuto successo.
Forse era meno peggio il successo da vivi, ma è meglio non dirlo, né adesso lui può dirlo.
Il grande poeta ha avuto successo.
Ma forse il grande successo stava già lavorando contro di lui anche con lui vivo cioè con lui complice.
Il grande poeta ha avuto successo.
E però rimane il fatto che da vivo non aveva molto successo, forse era un complice buono ma non buonissimo.
Il grande poeta ha avuto successo.
Era un grande poeta anche da vivo senza successo?
Il grande poeta ha avuto successo.
Si è grandi anche senza successo o addirittura senza morire?
Il grande poeta ha avuto successo.
Ha mai risposto, da vivo, a domande del genere?
Il grande poeta ha avuto successo.
Quel che faceva era soprattutto lanciare domande.
Il grande poeta ha avuto successo.
Ma il successo purtroppo è dovuto molto più alle risposte che alle domande, purtroppo.
Il grande poeta ha avuto successo.
Da morto lancia ancora domande?
Il grande poeta ha avuto successo.
Scriveva sempre soprattutto una pagina che diceva ossessivamente
“Il grande poeta ha avuto successo”.
Noi l’abbiamo trovata ed eccola qui.
(Nota del curatore: c’era proprio scritto così, “Noi l’abbiamo trovata ed eccola qui”.)
Il grande profeta ha avuto successo.
Ne ha avuto così tanto da meritarsi un finale apocrifo o ne ha avuto così tanto grazie al finale apocrifo?
In questo caso sarei io curatore il profeta.
E il successo è mio. (Come era mio il nastro adesivo.)
Eppure sono vivo. (E ho ancora, seppur minime, spese di cancelleria.)
Questo testo è stato trovato, così come lo riproponiamo, in ultima pagina di un libro appartenuto al grande poeta, con scrittura notturna a matita poi cancellata ma ricostruita con una scansione fotografica mattutina ad alta risoluzione.
Sull’ala di un pensiero
percorro quel viale alberato
che ci ha visti gioire
e scambiarci profumo di poesia
sulla corteccia le formiche
han continuato a lavorare
come se il mondo
non fosse cambiato
come se all’improvviso
tutta la poesia del mondo
non si fosse incontrata
tra le loro case
e camminano in fila
ignorando quei sorrisi
così radiosi da illuminare
molti giorni a venire
è così Incontrarsi
è così Abbracciarsi
è così Ricordarsi
e tutto il resto non conta più
si attende un nuovo viale
si attende quello giusto
quello infinito
della poesia
Dolori antichi e silenziosi
che urlate dentro me
fate così tanto rumore
da disturbare anche i miei sogni più leggeri e innocenti
quietatevi pure
per voi rimedio o soluzione non c’è.
Resterete con me a lacerarmi,
a graffiarmi il cuore e l’anima
per il resto della mia esistenza.
In ogni mio respiro,
in ogni mio gemito inespresso,
in ogni mia lacrima trattenuta,
in ogni mio pensiero sfuggente,
in ogni “ma”, in ogni “se”,
a formare quella me che mai sarà e che mai sarei voluta essere.
Come un vecchio juke box
seleziono la canzone,
mi risuona dentro
stonata.
I Verve alla radio,
un riverbero underground
dei miei pensieri confusi:
“And I’m a million different people from one day to the next”
Il fondo di un bicchiere
un sorso di whiskey che scalda e
brucia alla fine.
Un sogno lucido
come una vecchia pellicola,
mi basterebbe un back forward.
Un tonfo sordo dentro
tra un “arrivederci” e un “vorrei”,
un’altra tirata di sigaretta.
Mischiati tra la folla,
Siamo due narratori distanti e silenti
Di un racconto che ci accomuna.
Era tutto reale
Come l’acqua che disseta
E allo stesso tempo
Immaginario
Come la favola della sera.
Più volte abbiamo allungato la mano
Per afferrare quell’alito di vento
Che ci sibilava intorno,
Ma ogni volta che stavamo per farlo,
Svaniva come un sogno all’alba.
Non scriverò parole
Rubandole al racconto che è in noi,
Non le fisserò sulla carta
Donando loro l’eternità
E una parziale verità…
Mancherebbero le tue parole
Mancherebbe la tua nostalgia.
Le terrò chiuse in un angolo
E quando vorranno uscire,
Ascolterò il suono del ricordo,
Sola, ad occhi chiusi.
Un passero muto
si poggia
su madido ramo di pino
d’improvviso si desta
canta melodioso
e attarda
il sentimento penoso
ed ebbro di vino.
Scroscio di pioggia
a dirotto
bussa sui timpani stanchi,
non odo
le delicate corde di violino
soggiogare l’aria
e questi sensi insipidi e manchi.
Non posseggo l’udito,
l’ardito canto
è dunque
mai esistito?
C’era una volta una pedina di cristallo,
una come tante, allineata, impigliata in schemi predefiniti.
Ma un giorno la pedina cadde e si incrinò;
solo una piccola scalfitura sulla superficie.
Ma la pedina ormai non era più la stessa.
Iniziò a vedere oltre, a percepire se stessa in modo diverso, a disallinearsi.
Iniziò a comprendere che le strade sono tante,
e che i percorsi possono essere infiniti,
che non è vero che bisogna andare tutti nella stessa direzione.
Una caduta, un andare oltre, un istante solo
in cui riuscire a vedere il mondo in un’altra prospettiva.
E così da quel giorno la pedina iniziò ad essere
altro da sé, a non starsene zitta al posto che le avevano assegnato,
iniziò a viaggiare in diagonale.
Gli altri pezzi vedendola, iniziarono a deriderla:
non si era mai vista una pedina che viaggia in diagonale!
Non era normale, non era logico…
E ci fu anche chi apertamente disse che era folle e che bisognava fermarla,
che non era ammissibile.
Ma la pedina andava avanti senza ascoltare nessuno,
fiera delle sue scalfiture e convinta della sua direzione.
Ed ecco che altre pedine dopo un po’, si accorsero a loro volta delle loro imperfezioni
non era vero ciò che avevano loro raccontato: loro non erano tutte uguali, ognuna di loro era unica,
ed aveva diritto di scegliere la direzione che sentiva più adatta a sé.
Il Re e la Regina, loro malgrado, ammisero alla fine che anche loro non erano liberi,
che qualcun altro li stava manovrando
ed un giorno, un giorno non lontano, tutte le pedine, insieme, rovesciarono la scacchiera.
Io raramente vado al cinema. Di solito scarico i film da E-Mule o da YouTube, quelli che m’attirano di più. Preferisco il genere commedia ma non disdegno quello sociale, quello fantastico e, persino, quello d’animazione. In breve, gli unici generi che preferisco evitare sono quelli altamente drammatici, dove la violenza traspare a ogni fotogramma, e quelli horror. Ogni tanto, però, mi vien voglia d’andare a vedere un film al Cinema, quando esce uno di quei film che non riesco ad attendere due, tre mesi prima di poterlo scaricare oppure perché ho il piacere d’apprezzarlo di più sul grande schermo, dove la qualità dell’immagine e quella del suono surclassano il più sofisticato degli apparecchi televisivi.
Quel giorno era in programmazione il film appena uscito di Ficarra e Picone, due attori che apprezzo soprattutto perché non hanno bisogno di volgarità a buon mercato per esprimere la loro comicità e sanno trattare con la necessaria leggerezza anche temi importanti della nostra Società.
La sala 5 del multisala in cui lo stavano proiettando era praticamente vuota, dato che c’ero andato di giovedì proprio per evitare le folle del sabato e della domenica. Per cui avevo potuto scegliere un posto centrale di una delle file centrali. Come dire, una delle migliori posizioni possibili e senza avere nessuno davanti in nessuna delle file sottostanti. Almeno fino a quando non arrivò lei, proprio mentre già stavano scorrendo i titoli di testa sulle prime immagini.
Ovviamente, la sala era già al buio per cui giudicai casuale il fatto che, nonostante ci fossero intere file di poltrone vuote, mi si mettesse a sedere proprio davanti. Per giunta doveva essere molto più alta di me poiché mi copriva interamente la visuale.
Molto garbatamente le bisbigliai che le stavo seduto dietro e la pregai di cambiare posto. Ma con molta probabilità si trattava di una di quelle che pretendono di essere trattate alla pari quando devono avere e, quando devono dare, di possedere, invece, il diritto di prelazione e precedenza a prescindere.
“Questo è il mio solito posto…”, mi rispose stizzita e senza neanche voltarsi, “…e non intendo cambiarlo solo per fare un favore a lei.”
Rimasi di stucco, per l’inaspettata risposta, e sul momento non seppi reagire.
Intanto il film andava avanti, non capivo neanche i dialoghi a causa dell’improvviso turbamento, ma non avevo voglia di cambiar posto dopo che me l’ero scelto con tanta cura e solo per assecondare l’acida donzella. Così, appena mi ripresi, tornai alla carica:
“Scusi, io sono arrivato molto prima di lei e non vedo perché dovrei essere proprio io a spostarmi”.
“Lei è un villano…”, mi rispose secca, rivoltandosi inviperita, “se non la smette d’infastidirmi, chiamo soccorsi e le faccio passare un brutto quarto d’ora”.
Beh! Penso che per ogni essere umano esista un massimo della sopportazione e quella stupida perticona era stata capace di farmi raggiungere il mio in brevissimo tempo.
Con scatto fulmineo incrociai gli estremi della sciarpa che aveva al collo e strinsi finché la testa le crollò sul petto. Poi la lasciai andare, il peso del corpo la portò a sbattere sulla spalliera della poltrona successiva e, finalmente, ebbi la visuale completamente libera.
Si potrebbe dare un calcio
All’uroboro, colpirlo
Tra muso e coda e
Staccarlo dalla sua cantilena.
Tutto uguale, tutto lo stesso.
Anche la mia stanchezza è
Stanca, già vista;
Come pioggia annoiata
Cade sempre nello stesso periodo.
Vi vedo pallidi a ripercorrere
In circolo le vostre bassezze,
Con un sorriso da manichino
Senza occhi né vigore.
Come riuscite a muovervi tanto e rimanere sempre lì?
E come riesco io a scrivere e
Andare in ogni dove?
Avete ancora domande che non siano già state affrontate?
Si potrebbe dare un calcio alle vecchie domande, ai vecchi manichini e ai vecchi serpenti che si mordono la coda,
Che a furia di mordere il cerchio stringe.
Tutto ritorna più presto a fare il giro,
Tutte le mie parole si affrettano ad
Attaccarvi ancora e ancora,
Tutto si stringerà in un punto.
Massima stasi,
Automi autoinghiottiti,
Digestione di se stessi
In un ultimo grande scarto umano.
Qualcuno da fuori deve intervenire,
Un calcio deve arrivare…
Da Dio o da un Poeta.
Dopo Cefalù, sembrò che il rigore del clima e l’asprezza dei luoghi riflettesse le angosce che serbavo in animo. Il cielo addensava nembi di tenebra fosca, quasi si velasse per lutto e trattenesse pianto. Il mare imperversava senza pace, sferzato da rabbiose correnti, come belva ai colpi di flagello. Per alcune notti trovammo riparo presso un monastero greco, arroccato in cima a un monte solitario. L’avresti detto rifugio di eremiti che fuggono la luce, ma custodiva tesori di sapienza e santità. Gli eruditi della corte si dilettarono consultando manoscritti antichi di secoli. Le guardie del re andarono a caccia nei boschi d’intorno. Trovammo ristoro nelle lunghe liturgie notturne: i canti sacri ci giungevano come balsamo per l’animo, mentre i volti dei santi alle pareti, rischiarati dalle molte candele, ci scrutavano, come vegliando su di noi e sul mondo intero. L’adolescente sovrano, la regina madre, l’eccellente Stefano ed io stesso amavamo la dolce chiesetta come i conigli la propria tana al riparo dalle piogge e dai pericoli di fuori. Pur nella povertà del luogo, il re si mostrò felice di quell’imprevista sosta, così remota dagli intrighi e dagli affanni della capitale. Lieto della pace ritrovata, il buon re Guglielmo donò preziosi e privilegi ai timidi monaci, imbarazzati per non aver potuto degnamente accogliere la sua maestà. Riprendemmo la marcia verso oriente, percorrendo sentieri ai piedi di elevatissimi monti, cime dense di fitta nebbia. Da qui ancora i lupi alzano alla luna il grido della fame. È un deserto d’uomini. Incontrammo rari tuguri di pastori, che vivono come bestie, ma parlano tuttora la lingua di Platone e Aristotele, ignari delle lingue di Roma e di Medina. Nell’ultima luce del giorno seguente, ci accampammo presso un’antica città. Le sue rovine proiettavano su di noi lughe ombre, mentre il cielo rasserenato nel crepuscolo si andava tingendo di porpora regale. Tutti noi ammirammo le titaniche colonne, collocate secondo una logica enigmatica, come un’arcana scrittura, a tutti visibile, ma ormai incomprensibile, e meditavo come quei colossi di muta roccia celassero ormai tutto il segreto di età trapassate, senza più memoria. Così dunque scompaiono le città e il loro ricordo si perde nel vano susseguirsi delle generazioni, simili alle foglie, che ad una ad una il vento disperde.
Echeggiano prepotenti
gli accordi del tuo silenzio.
Quando urla e quando tace.
Quando nel mentre sussurra.
E dopo si lamenta.
Per questo
non mi sento vuota
ad ascoltare il nulla,
per me è già sinfonia.
Ho l’orecchio appoggiato
sul tuo petto
il tuo respiro ventoso
mi spinge negli angoli di me,
mi aggrappo a rami di speranza
e il burrone sotto i piedi
divora ciò che sogno.
Riemergo.
Diversa.
Sempre Io.
Non potendoti disfare di me
mi regali
un Silenzio che arpeggia
tra i miei pensieri.
Sei in me
come quel ritornello estivo
che anche con la radio spenta
lo senti ovunque
dentro.
