Vuole la storia che Alice e il Cappellaio si sarebbero persi per tantissimo tempo, per poi ritrovarsi come se fosse passato solo un secondo. Era una storia strana la loro, potevano stare lontanissimi, non vedersi, né sentirsi, ma questo non avrebbe cambiato il loro incontro.
Alice sentiva quando il Cappellaio non era felice, se gli succedeva qualcosa o si allontanava. Guardava il cielo, le nuvole, si era resa conto che anche se in due mondi inconciliabili, forse, non erano lontani. Era stato difficile trovarsi la prima volta, riconoscersi nella moltitudine, ma da allora lo spazio e il tempo erano solo concetti astratti, comunque sembravano legati da una sorta di filo che non riusciva a spezzarsi.
Si erano persi, Alice pensava per sempre, irrimediabilmente, ma il Cappellaio è tornato a farle visita nei sogni, per diverse notti. Tutti pensavano fosse felice, in procinto di una deliranza, ma nel sogno di Alice non faceva che stringerla forte, prigioniero del sortilegio di una regina di Cuori, mascherata da buona regina Bianca. Alice non riusciva a capire il significato di questi sogni.
Forse solo suggestioni della sua nostalgia, forse, una spiegazione inconscia a quel silenzio forzato, forse, un segnale d’allarme. Alice, inspiegabilmente, riusciva sempre a capire quando il Cappellaio non era felice, anche se (in questa favola) l’aveva ferita in maniera davvero profonda, anche se aveva detto “Basta” in maniera definitiva, di solito, era sempre intervenuta per aiutarlo, sfidando logica, tempo, orgoglio e anche se stessa. Ne aveva passate talmente tante che si era proprio convinta che se lo voleva per davvero, niente era impossibile o le faceva paura, nemmeno attraversare gli specchi o lottare contro il Tempo, loro nemico più grande, insieme al tempismo. Sarebbero stati due pezzi perfetti di un puzzle se fossero riusciti a incastrarsi, ma non erano mai al posto giusto, nel momento giusto.
E quindi la storia vuole che siano lontanissimi, mondi, anni, vite, ma che i loro ricordi, le loro vite, inevitabilmente si intreccino, il Cappellaio le accarezzi dolcemente la testa e la guardi negli occhi e in quell’attimo non esiste tempo, spazio, regine di cuori, ma tutto si cristallizzi. Sì, alla fine, nella lotta contro il tempo hanno vinto loro!
Quante volte abbiamo coscienza di essere ciò che siamo? Un mondo difficile che coinvolge chiunque, anche chi se ne frega, ma ditemi… voi, quando siete in un angolo del vostro silenzio… cosa rimbomba dentro?
Cerchiamo in fondo un po’ di pace, sì, forse silenzio….
Camminava guardando i lastroni: piscio, guano, rumori indistinti.
Sì, faceva caldo, era estate, e forse normale.
Salire sui ponti e poi ridiscendere, scansare ostacoli senza saperlo, che sono gli attimi che annunciano i passi.
Ogni volta un pensiero che incontri e poi si dilegua, si mescola ad altri e diventa un tutt’uno.
Allora ti accorgi che sei uno dei tanti, dei molti respiri.
Nessuno si ferma per ascoltare, si aspetta: il tram, che ancora non passa, il telefono che ancora non squilla, la sera, che ancora non viene….
Tutto nel Nulla accade comunque!
Allora si fermò, colpa di un astro nel cielo infinito, un’eclissi, e quell’ombra che riempie di note anche il cielo più nero, e la solitudine è un’occasione per sentire i contorni di questo corpo che s’alza nel vento, che non sa da dove viene e dove conduce, il vento danza con lei e sono mute le note in un mondo affannato che corre, che aspetta e che non sente più… Il dolore, la rabbia, la paura dell’altro.
Calerà il sipario di questo spettacolo, che lascia uno spazio, e forse è il silenzio che ancora non tace.
Pensieri bianchi e veloci
scorrono e scivolano nella mente
dalle curve dritte e pericolose.
Gocce nella discesa ripida e facile
dalle parole soffocate.
Urla asfissiate a bocca aperta
e deliri di viaggi notturni
nell’incomprensione del girotondo altrui.
Come fiori
sbocciano pensieri
innaffiati dalla solitudine
degli echi rimbombanti.
Pensiero e vita-
tratteggio pericoloso-
se è senza pelle
ciò che si sente.
Un quadro di cieli
Nei nostri occhi.
A colorare la tristezza
Di un’insolita giornata.
Regali stonati
Risuonavano
Nelle mani
Solitarie.
Incroci di sguardi
Soltanto bastavano,
A noi semplici
Amanti.
Incomprensioni
Fastidiose
Ruvide
Taglienti dirupi.
Ho imparato a guardarti oltre gli occhi e le mura si sono sbriciolate ai miei piedi.
Ora le parole che non riesci a pronunciare attraversano l’aria, e toccandomi lo sterno diventano battito.
Oggi il tuo silenzio sdraiato sul foglio è musica per chi chiude le palpebre.
Il mondo a volte si ferma mentre crollano pezzi di cielo e le nuvole piangono lacrime acide, allora cerchi la mia mano, perché non trovi più la tua.
La levo dalla tasca del giubbotto, lasciando cadere matite spuntate e briciole di carta per poggiartela sulla guancia.
Guardo il cielo, che ancora cade ai nostri piedi.
Odio questo mio amarti, così leggero da farsi spostare sul battito d’ali di una libellula, così potente da riuscire a scombinare le costellazioni.
Ti ho detto cos’è il tuo bacio?
Veleno.
Antidoto.
Ferita.
Unguento.
Guardami oltre gli occhi, e ti scoprirai tra fili d’erba smossi dalle pieghe della gonna larga che indossi ballando sulle punte, e il cielo ti guarda restando al suo posto, e il mondo gira seguendo la danza che improvvisi.
Io ti aspetto qui, lancio al cielo i suoi pezzi facendo ripartire questa sfera di terra, acqua, sangue e nervi.
Ti aspetto, in mezzo a gente distratta dal colore del vestito, con la mano nella tasca del giubbotto sempre pronta ad uscire, sporca di terra, fino a quando nella tua, fiorirà.
Quante cose ha dimenticato mia madre.
Non ricorda più gli abiti a fiori
Custoditi nell’armadio,
Eppure era così felice di sfoggiarli
Durante le feste.
Non ricorda più di mettere la crema sul viso
Eppure lo faceva ogni giorno.
Non ricorda di non amare le patate
E di amare la cioccolata,
Ora, a tavola, mangia quello
Che le viene messo nel piatto.
Non ricorda le stagioni
E l’ora che le lancette della sveglia
Segnano, sulla mensola in cucina.
Figlia della terra,
Non ricorda che è tempo di vendemmia.
Non ricorda della morte,
Ha ancora la sua famiglia attorno a sé.
Non ricorda di avermi posto
La stessa domanda, un attimo prima,
E ancora altre dieci volte,
Non fa niente,
Le do la stessa risposta ogni volta.
Quante cose non ricorda mia madre.
Eppure non ha dimenticato
Di essere madre, di essere nostra madre
E di guardarci con gli stessi occhi amorevoli
Di sempre.
Uomo!
Per servire un senso…
sii figlio del dissenso,
non cadere
nella rete
dell’abitudine,
del già detto,
del già scritto,
del già compiuto!
All’Imponderabile
resta aperto.
Ricorda, uomo,
che sei ben Oltre
i tuoi occhi,
le tue mani,
le tue ossa,
la tua pelle…
Sei Oltre
quel che di te vedi
e che puoi toccare!
Ritrova sintonia
con le stelle…
preziosa particella
di Cielo,
pescatore d’Infinito.
Occorre non disdegnare il centro dell’attenzione.
Occorre non cercarlo.
Occorre avere il dono di non dover fare un lavoro per starci.
Occorre esserlo.
Occorre sapere che non è un luogo altrui.
Occorre sapere che è quieto e sacro e irrilevante.
Occorre sorriderne.
Occorre essere belli.
Occorre spogliarlo e sottrarlo al rumore.
Occorre volerlo cambiare.
Occorre saperlo spostare.
Occorre sapere che siamo questa storia di viaggi.
Occorre sapere che la storia muore.
Occorre gioire per la storia che muore.
Occorre preoccuparsi della storia che nasce.
Occorre impastare il proprio mattone di fango.
Occorre capire il freddo e il caldo.
Occorre bussare al vicino.
Occorre fare la domanda giusta.
Occorre perdere qualcosa.
Occorre ricordare tutto.
Occorre trovare i colori di tutto.
Occorre non raccontarli.
Occorre sapere che non esiste l’attenzione.
Occorre dire che non c’è nessuno là fuori.
Occorre prepararsi per quando tutto sarà.
Occorre sapere che questo è il gesto per cui tutto è.
Occorre farsi totalmente e finemente sguardo.
Occorre sapere che non esiste centro.
Occorre sapere che non c’è fine.
Occorre cestinare questa lista.
Fotografo con gli occhi
un momento della sera
la luce ammorbidisce
i contorni delle cose
giocano i colori
si fondono
attimi di magia
colano sulle guance
come lacrime di tempera
dando vita al dipinto
che racconta la tua storia
da portare con te
come un guerriero
il suo scudo
Penso sempre a te,
Amica mia,
stesa inerme
tra bianche lenzuola
di un letto sfatto
chiusa da pareti
di dolore e sofferenze.
Le nostre risa
ormai lontane.
I nostri passi
ormai silenti.
Ti sta lasciando
piano la luce
trascinata
nell’ oblio.
Non posso
che abbandonare
le tue mani.
Infiniti ricordi
rimarranno a me
con l’azzurro
dei tuoi occhi
con la forza
della tua anima
con parole comprese
rimaste nel cuore
Come sempre era in ritardo: Alessandro guidava nervosamente, imbottigliato nel traffico mattutino di Torino: e come sempre succedeva, quando era alla guida della sua Lamborghini usciva fuori il suo lato peggiore. Procedeva a scatti, inveendo contro chiunque malauguratamente avesse la sventura di trovarsi sulla sua traiettoria.
Ancora una volta gli sarebbe toccato sorbirsi la ramanzina di Alberto, il suo fratello maggiore; nonostante avesse solo due anni più di lui Alberto era completamente diverso: sempre serio, impeccabile nei suoi completi rigati, un manager di successo, sposato e padre di due bambini, laureato con lode in economia e commercio e che, ormai da quattro anni gestiva in maniera attenta e scrupolosa l’impresa di famiglia, dopo che il padre Alfredo De Petris, importante capitano di industria, aveva deciso di andare in pensione, nominando direttore il figlio maggiore.
Alessandro d’altra parte non aveva avuto niente da ridire: a lui non interessavano gli affari, voleva godersi la vita, ed era esattamente quello che stava continuando a fare. A 28 anni Alessandro continuava a dedicarsi a quello che era sempre stato il suo passatempo: sperperare denaro e divertirsi.
Ed era questo, ma non solo, uno dei motivi di maggiore attrito tra i due fratelli: mentre Alessandro continuava a spendere denaro che non guadagnava senza preoccuparsi minimamente di nulla, Alberto lavorava alacremente per incrementare i fatturati dell’azienda paterna, che grazie al lavoro attento e scrupoloso del ragazzo, aveva in pochi anni ottenuto un successo senza precedenti.
“Ed ora”, pensava Alessandro mentre guidava nervosamente nel traffico, “dovrò sorbirmi un’altra filippica di quel noiosone”. Che poi al pranzo di famiglia Alessandro non aveva neppure voglia di andarci, non dopo la nottata precedente, a proposito, come si chiamava la squinzia? Non se lo ricordava più.
Comunque alla fine si era svegliato tardi e con un gran mal di testa, e con la voglia di girarsi dall’altra parte e rimettersi a dormire, ma non aveva potuto farlo perché quello sfigato di suo fratello gli aveva intimato di non mancare, che altrimenti gli avrebbe tagliato i viveri.
Ed era questo il motivo per cui Alessandro, invece che essere a casa sua a dormire, era imbottigliato nel traffico.
Via Pietro Micca, non mancava molto; mentre era immerso nei suoi pensieri, Alessandro arrivò all’altezza di piazza Arbarello proprio mentre il semaforo diventava rosso; “ce la faccio, dai”, e mise il piede sull’acceleratore senza accorgersi della Fiat Panda rossa che proprio in quel momento stava attraversando. Stridore di freni e poi un botto.
La panda aveva sterzato bruscamente per evitarlo, ed era andata a schiantarsi contro lo spartitraffico.
Alessandro scese dall’auto: ma non ebbe il tempo di aprire bocca, perché non appena ebbe messo il piede fuori fu investito da una pioggia di ortaggi e di insulti vari.
Cercando di ripararsi da quella inconsueta pioggia, Alessandro provò a mettere a fuoco la situazione. Ed ecco davanti a lui la dispensatrice di ortaggi volanti, una giovane tutta tatuata e piena di piercing e dai capelli rosso fuoco. La ragazza continuava a lanciargli dietro ortaggi, pescandoli dal bagagliaio della sua panda accartocciata. E mentre lo faceva urlava come una forsennata.
“Deficiente, idiota, ma come cazzo guidi???”
Poi ad un tratto la ragazza scoppiò in lacrime. Alessandro si avvicinò cautamente.
“Ed ora come faccio?”. La ragazza era adesso seduta sul marciapiede in preda ad una vera e propria crisi isterica.
“Stavo portando la spesa alla mensa dei poveri. Ed ora come faccio? Cosa mangeranno?”
Chiamarono i vigili e il carro attrezzi per sbrigare le formalità e spostare il veicolo dalla carreggiata.
Finito che ebbero di sbrigare le formalità Alessandro risalì a bordo del veicolo: ma la ragazza gli si era piazzata davanti. Le mani sui fianchi, i capelli scarmigliati, e gli occhi gonfi di pianto, se ne stava lì, davanti alla sua auto.
“Dove cazzo credi di andare? Tu adesso mi accompagni!!”
Sospirando Alessandro scese dalla macchina, ed iniziò a raccattare gli ortaggi dalla strada.
Quando ripartirono nella Lamborghini non c’era più spazio: quintali di zucchine, carote, porri e patate, ed un certo numero di pacchi di pasta riempivano ogni spazio. Ma la cosa peggiore era il pesce: immediatamente l’odore impregnò l’abitacolo.
E mentre Alessandro si immetteva nel traffico, la ragazza, che seppe poi chiamarsi Carlotta, iniziò a dargli le indicazioni.
Il tempo scorreva veloce, e ad un certo punto i due iniziarono a chiacchierare.
Carlotta aveva 26 anni e studiava al Dams. Ma soprattutto la ragazza era impegnata, molto impegnata, a livello sociale: volontaria presso diversi enti benefici, Carlotta spendeva la sua esistenza per aiutare gli altri.
E mentre la sentiva parlare della sua vita piena, Alessandro iniziò a riflettere sul fatto che quando sarebbe venuto il suo turno in realtà non avrebbe avuto granchè da raccontare.
Ma non ce ne fu il tempo: erano arrivati a destinazione. Alessandro scese dall’auto e insieme iniziarono a scaricare. E mentre lo facevano avevano iniziato a scherzare. Carlotta aveva una risata cristallina e uno sguardo limpido. Guardandola sistemare le vettovaglie nei grandi frigoriferi Alessandro impulsivamente decise che non gli sarebbe dispiaciuto fermarsi un po’.
“Non è che volete una mano oggi? Io non ho grandi impegni e mi fermerei volentieri”.
“Ma certo!”.
Carlotta lo presentò agli altri volontari: tutte persone dall’aspetto cordiale e sorridenti, che lo accolsero con calore.
Non ebbero molto tempo di parlare: il lavoro alla mensa era estenuante, ma c’era un bel clima di cameratismo e collaborazione.
E quando la gente iniziò ad arrivare e a mettersi in coda, Carlotta mentre servivano i pasti, iniziò a raccontare le storie dei personaggi che man mano scorrevano nella fila.
Storie di povertà e solitudine.
Ed alla fine della giornata, Alessandro era stanco, ma dentro di sé provava qualcosa che non sapeva definire. Un senso di pienezza e di appagamento che non aveva mai provato.
E poi c’era Carlotta: non era bella, piccola, minuta e lentigginosa, e con un rosso cespuglio indomabile al posto dei capelli. Non certo il tipo di donna che Alessandro avrebbe notato.
Eppure..
D’impulso Alessandro le propose di accompagnarla a casa e lei accettò.
E fu solo quando arrivarono sotto casa della ragazza che Alessandro si rese conto di non avere nessuna voglia di separarsi da lei.
Carlotta lo salutò con un delicato bacio sulla guancia.
Nelle settimane successive Alessandro riprese la sua solita vita.
Uscite serali, alcol e donne.. ma stranamente non riusciva a divertirsi. Continuava a pensare a quella strana ragazza, ma soprattutto alla giornata passata alla mensa, alle emozioni che aveva provato.
Decise di mandarle dei fiori. Non un mazzo normale: un enorme mazzo di rose rosse.
Aspettava con trepidazione di sapere se le fossero piaciuti.
Il fioraio lo chiamò dicendogli che la ragazza aveva rifiutato i fiori.
Allora Alessandro decise di sorprenderla: andò in una gioielleria, e acquistato un bellissimo braccialetto, chiese al gioielliere di farlo recapitare alla ragazza.
Anche in questo caso tuttavia Carlotta rifiutò il dono.
Doveva farsene una ragione: Carlotta non aveva nessun interesse per un buono a nulla come lui.
Eppure. Non aveva sognato quando nel salutarsi lei gli aveva sfiorato delicatamente la guancia, e prima di scendere dall’auto lo aveva guardato dritto negli occhi.
Ed ora che l’aveva trovata Alessandro non voleva lasciarsela sfuggire. Solo con lei sentiva di poter trovare la forza di diventare una persona migliore.
Ad un tratto gli venne un’idea.
Si vestì in fretta, e correndo uscì di casa.
Per un attimo guardò la Lamborghini, poi decise che quel giorno avrebbe preso l’autobus e fatto due passi.
Ci volle un po’ per arrivare. Ma ecco davanti a lui la mensa dei poveri.
I volontari stavano scaricando ortaggi da un’auto parcheggiata davanti al portone.
Alessandro si avvicinò e i quelli lo salutarono con un cenno ed un sorriso.
Alessandro afferrò un cavolfiore.
Con passo deciso entrò nell’edificio.
La vide subito, e le si avvicinò. Con dolcezza le porse il cavolfiore.
E finalmente Carlotta lo abbracciò.
Da quarantadue anni sulla scena.
Ho vissuto giorni in cui ho creduto
di non essere io a decidere le battute.
Forse mi ha guidato un regista
che sta lontano, lontano
e non sembra interessarsi troppo ai dettagli.
Anche se parecchia pellicola
è già andata avanti
e parecchie cose
sono già state scritte,
c’è ancora tanto
da vivere e recitare.
La vita può sembrare un brutto scherzo,
eppure non smetto di dipingere i giorni
con i colori della speranza.
Mi piace rivedere il film
e riscoprire una scena
che prima credevo inutile
e ora diventa importante.
Mi guardo dentro e vedo
tutto l’amore che ho saputo conquistare.
Una luce mi abbaglia, come una certezza:
l’idea che quando vedrò i titoli di coda
non sarò solo
e tutto avrà avuto un senso.
Dovresti colorare
un colore
prima di dirlo,
non lasciare un rosso
al rosso,
un nero al nero.
Il vantaggio dei
daltonici è abitare
la possibilità:
i colori sono idee.
Dovresti parlare
una parola
prima di dirla,
non lasciare un rosso
al rosso,
un nero al nero.
Il vantaggio dei
poeti è abitare
la possibilità:
le parole sono idee.
Sono al tuo fianco
e levo alte e minacciose
le mie parole affilate
sopra la tua testa.
Chissà cosa pensi,
col tuo spirito in ginocchio
mentre punti un’arma mortale
in faccia alla tua anima.
Il primo passo verso l’oblio
lo hai deciso tu, e con le tue mani
e coi miei versi cercheremo
di farla finita in fretta.
Il tempo di un respiro
e vedo il tuo spirito
farsi vero, lo osservo aprirsi
implacabile da uno squarcio fiero.
Renderò immortale la tua morte,
con la mia poesia che si abbatte
con precisione a dare fine
alla tua sorte.
Qui con la penna
ogni poeta dà il colpo di grazia
alla propria pena,
qui sul bianco di un foglio scorre un sangue nero.
Siam sempre noi a stampare indelebilmente
la nostra morte con la penna,
e andare avanti con una nuova vita,
nuove lotte, nuove lame.
Siam sempre noi che consideriamo
degno il fermare
un pezzo di nostra storia
tra versi decisi, orgogliosi.
Siam sempre noi che sappiamo
ogni foto come un suicidio,
che sappiamo questa stasi come arma,
come pietra da lanciare al futuro.
Raccogli le parole dure come sassi
dei poeti, raccogli questa morte su carta
e lanciala in avanti con furioso amore,
mira allo spirito che ha il tuo stesso fervore.
Di che magia
materia, polvere cosmica
e pezzi d’universo sei fatto
per fermarti così a lungo
in un respiro
di notti insonne
e venature bruciate
nel flusso matto
di un sogno che corre?
Sei imprendibile
come la notte all’alba
come la sabbia
quando cerchi di trattenerla
in un pugno
come il vento
che accarezza il mondo
ma non si ferma
così
la mia attesa
è eterna.
