Non lo so…
So cosa non può essere
Non sono io
Non è l’alba
Non è nemmeno nelle foglie d’autunno
Non è il viso carico di mia madre
Non è nelle cose che non ho
Non è un bambino che gioca alla guerra
Non è la mia voglia di scrivere
Non è il sole all’orizzonte
Non è una sensazione di malinconia
Non è un brutto ricordo
La poesia
E un vento leggero dal mare
Mi porta il tuo viso
Colorato di occhi lontani
Sbagliando il finale
Ti scrivo ti amo
Scegliendo un vento piccante maestrale
Chi vede
scrive e consuma
chi ha visto
ha negato
ogni altra vista
futura
come di
cosa detta
verità trovata
intoccabile
come di
spiaggia
dataci
senza orme
perché cambiasse
Non c’è modo di parlare di morte
se non da vivi
non posso parlare di vita
se non da morta
quanta pace occorre
per poter parlare
ma è solo quando mi trovo all’inferno
che riesco veramente a scrivere
Ci perderemo tra la pioggia, come quelle gocce che si schiantano sull’asfalto.
Non mi troverai come quelle chiavi che cerchi disperato nello zaino e non riesci a vedere, come la strofa di quella canzone che avevi in mente fino a un attimo prima e sembra esserti sfuggita.
Ci siamo mischiati i dolori, leccati le ferite, in quelle feritoie che si aprono tra gli infissi delle finestre.
Sei ancora lì, con quello sguardo perso nel vuoto, un posacenere pieno e la bottiglia di birra che ti osserva dal comodino: dalle sue trasparenze puoi intravederne il fondo, senza toccarlo.
Me ne andrò, in punta di piedi, vorticosamente immersa nei miei pensieri che porto sulle spalle, stringendo forte le fasce, a passo cadenzato sui miei “perché”. Intanto il sole picchia al finestrino, tutto sembra immobile, eppur si muove al ritmo intermittente dell’autobus, ogni fermata è un ricordo, ogni volto una verità.
Avrei voluto un “giorno in più” per fissare sulla pelle la tua essenza, per ripercorrerne ogni tua piega, per dissetarmene durante la tua assenza.
Il pensiero crea e trasforma, svelami la tua nudità, mostrami l’anima, la mia è sotto vuoto, me la sono dovuta guadagnare grammo per grammo. Ci siamo raccontati i sogni per poi perderli al risveglio, confuse le parole, scorrono fiumi d’inchiostro a separarci.
E adesso che non hai più
La freschezza della gioventù
Sembra una fola ma credi a me
Io t’amo più di non so che
Sento la voglia della prima volta
Che fra le braccia t’ho accolta.
So che tu sai che sono sincero
A questo mondo è purtroppo vero
Se fai una vita che è sempre uguale
Ti stanca presto e viverla non vale
Con te ho passato la mia gioventù
Ma stanco mai mi fai sentire tu.
Che emozione se mi stai vicino
Che tormento esserti lontano
Tu sei il sole che nel mio giardino
Schiude il fiore del melograno
Quanta gioia a piene mani!
Quanta verve nel mio domani!
Che emozione dentro me avverto
Se il tuo sguardo è perso nei miei occhi
Tu sei l’acqua che nel mio deserto
Dà la vita a tutto ciò che tocchi
Quanta gioia a piene mani!
Quanta verve nel mio domani!
Il mio corpo
non è piazza
popolata di voyeurs
da Vecchio Testamento
ma selvatico sentiero
disseminato
di forma e conoscenza,
fonte di carnalità
e racconto cui attingere
l’antidoto incoerente
al teatro materiale:
la vita mina
d’esperienza e senso
le architetture ipocondriache
delle morti in vendita,
il tuo corpo
è teatro generoso
e scena inesauribile
che devi imparare
a nutrire
di lotta e bellezza.
Mia piccola bambina orchidea
meravigliosa creatura
stupenda fragilità
basta un alito di vento
per spezzare il tuo stelo elegante.
Saresti voluta nascere soffione
per crescere ovunque
senza particolari cure
senza troppe attenzioni
con la corazza dura
resistente ad ogni burrasca
Ma sei nata orchidea
bellissima, luminosa,
con il gene della vulnerabilità,
delicata, in via di estinzione.
È vietato raccoglierti specie protetta
e affamata d’amore.
Permeabile fanciulla
nulla ti scivola addosso
ti impregni dei dolori altrui
sarà per questo che ami i tatuaggi
per scegliere da sola
cosa imprimere sul tuo corpo,
i segni da lasciare sulla tua pelle.
Cerchi salvezza
vuoi imparare a diventare soffione
fuggire la perfezione
rafforzare l’armatura
e procedere sicura
lungo i sentieri della vita.
Bambina mia
orchidea o soffione
resterai per sempre il fiore più bello
del mio giardino.
Salvatevi.
Salvatevi da chi pronuncia odio.
Da chi manifesta rabbia.
Salvatevi da chi semina rancore.
Questo posto brucia
di disprezzo e di violenza.
Salvatevi.
Il mondo è delle anime gentili.
Diffondete passione.
Urlate buon senso.
Salvatevi.
Vi vogliono aridi e approfittatori.
Ma voi lasciatevi sorprendere
mentre coltivate fiori.
American Lockdown
Le elezioni in stand by l’America di Trump
L’agonia della lucertola rossa nel garage vicino alla Buick chi se la dimentica
Buchi nelle travi come occhi profondi topi neri scappati da chissà poi quale fogna
La canottiera fradicia il sacco che cigola e traballa anche se ho smesso di picchiarlo
Tutto mi sembra imperfetto e passato la tua prima foto la mano con cui copri una risata
La maglietta che hai usato per dormire la scorsa notte buttata sul divano
Ho in tasca un euro e due spicci per comprarci quella via di Parigi dove ci siamo incontrati
Il tuo culo leggero a Denfert-Rochereau prima di scendere alle catacombe
Mucchi d’ossa alle pareti beviamo birra gelata e celebriamo cose leggere
Ridiamo ti rubo un bacio e le promesse universali dell’amore
Aria di mezzanotte per strada ci sono solo freak da fumetti dell’orrore
E viali in bianco e nero Alice in chains Sin City Frank Miller
Le cartoline di Pigalle si sono ingiallite tiriamo un Popper buono e ridiamo, ridiamo.
Oggi pulisco casa i calcinacci in terra segatura biglietti della metro timbrati male
Un treno che passa e fa blaterare i vetri luci giallo paglierino
Un paio di bottiglie rotolano da sotto al letto
Il rimmel che cercavi l’altra sera liquirizie masticate la tua felpa rosa
Torna qua che mi è venuta voglia di pizzicarti il culo.
La Grande Città ci aspetta per vivere.
Sono braccia di bilancia sudo fatica e sofferenza a tale equilibrio che tanto sarebbe se osassi dislivelli?
Sono caduta dalla luna atterrata maldestramente nella durezza dell’asfalto che tanto sarebbe se osassi polvere di stelle?
Sono ingranaggio di ticchettii di orologi e cuori andamenti di mondi e giorni che tanto sarebbe se osassi instabilità?
Sono emozione e pensiero dentro reti del viver comune che tanto sarebbe se osassi insania?
Vedreste senza trovare incontrereste paghe solitudini scevre da realismi perché chi scrive ne è imbrattato come gabbiani nel petrolio e ne è libero perché essi servono solo per essere trasfigurati
Che tanto è, partorire Poesia?
Sei sempre lì, nei miei pensieri, nei mei ricordi, nei miei sogni.
Lì, tra frammenti di immagini passate che dolcemente mi struggono il cuore.
Lì, dove basta chiudere gli occhi per poterti stringere a me, per accarezzare piano il tuo volto smagrito, per tenere le tue mani tra le mie.
Sono lo scrigno dei tuoi ricordi.
Li tengo dentro di me, stretti stretti al cuore, perché so che tu non puoi farlo.
Li voglio custodire come un tesoro prezioso, lo farò sempre, lo farò per te.
E così continuo a sfogliare vecchie foto, mentre i giorni si susseguono e il mondo sembra impazzito.
E così continuo ad attendere mentre ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, mi strappano via pezzetti di te.
Sono lo scrigno dei tuoi ricordi, e sarò sempre dentro il tuo cuore.
E così continuo a maledire il destino,
che pur senza portarti via da noi
ha portato noi tutti via da te.
Quel destino capriccioso dispotico intransigente,
quel destino che a colpi di spugna cancella i nostri volti dalla tua mente.
Sono lo scrigno dei tuoi ricordi e sono dentro di te, così come, madre, tu sarai sempre dentro di me.
Fare i conti col passato
alla presenza di quella donna,
quella donna che hai amato
fino all’ultimo spicchio della tua vita.
Ha pensato bene di rivolgersi a te;
quando il suo cuore era caduto
ha volto il capo nella tua direzione,
e lì sei in piedi ad ascoltarla
su quella lunga scalinata.
“Non c’è bisogno di essere madre”,
così le dicesti quando tutto finì.
Ma ora con l’assurdo potere dei suoi occhi
ti buca le viscere su quei gradini.
Quale spirito si cela
dentro le profondità
di quel marmo?
Sembra nascere e morire tutto lì,
ogni volta, in un eterno ritorno
terribilmente agrodolce.
Ma ora, coi suoi piccoli piedi
due gradini più su,
ti bacia violentemente mentre
qualcosa ti si incrina dentro…
…e questa volta ricomporre
il tuo cuore sarà impossibile.
Era appena apparsa l’aurora sul mare cristallino mentre sotto lo scoglio grande stava avvenendo un miracolo, si stavano schiudendo le uova della famiglia stella maris, tante piccole uova e ognuna conteneva una piccola gioia per mamma e papà. Erano ormai quasi tutte schiuse, mancava solo una piccola, piccola e… poff anche quella si aprì ed un minuscolo esserino usciva fuori contento, mamma e papà sapevano bene che era il più piccolo della nidiata e che avrebbe avuto difficoltà a proseguire la sua esistenza, ma gli insegnarono la vita lo stesso come ai suoi fratelli e il piccolo “Amore”, questo era il suo nome, crebbe. Tutti i giorni lui trovava il modo di essere felice per il plancton che le acque dell’Oceano portavano verso la scogliera o mentre giocava tra le alghe basse del mare, era felice anche quando Poseidone era inquieto e faceva agitare il mare, cosicché lui e tutta la famiglia erano costretti a rifugiarsi sotto lo scoglio grande, dove la sabbia calda li proteggeva. Il piccolo aveva imparato a proteggersi dai pericoli come la vecchia murena che abitava due scogli più in là, e a giocare con le sogliole che si nascondevano sul fondale sabbioso. Era rosso, con le cinque punte cicciottelle e anche se piccolo era sicuro di sé. Un giorno mentre si ergeva sullo scoglio più alto, guardò oltre la scogliera e vide l’oceano aperto… era bello e pauroso, il blu delle acque era cosi intenso da fare male agli occhi e il profumo di vita che emanava era così intenso da stordire il suo piccolo cuore. Sapeva che se si fosse lanciato nel vuoto di quel blu avrebbe perso il suo mondo, ma avrebbe iniziato una avventura stupenda, raccolse tutte le forse, scacciò i pensieri brutti dalla mente e si lasciò cadere. La corrente calda che s’infrangeva sulla scogliera, lo fece planare su di una collinetta sabbiosa, lì i raggi del sole filtravano a fatica, lasciando delle scie luminose e dei riflessi argentei più in basso. I colori erano meno forti ma sempre bellissimi, rimase lì per delle ore con il cuore a mille, gli occhi sbarrati, pronto ad assaporare tutta la vita che gli passava davanti. Ad un tratto dalla punta più piccola di tre scogli più in basso, arrivò un canto melodioso e forte che inebriava l’acqua tutto intorno, le vibrazioni erano così dolci da perdersi nelle carezze che facevano produrre alle onde. Il nostro piccolo Amore si sporse il più possibile per poter vedere di chi era quel soave canto e di lì a poco apparve una piccola delfina… era graziosa e piccolina, cantava allegra e nuotava felice in quella piccola radura della grande scogliera corallina, non era grande e forte ma piccolina e gracilina non aveva mai lasciato la piccola radura dove era nata, perché il suo cuore non riusciva a sostenere lo sforzo di nuotare nell’oceano e tanto meno affrontare i pericoli che esso conteneva, il suo branco tornava di tanto in tanto per salutarla e per fargli compagnia, ma lei passava intere giornate da sola. I suoi occhi dolcissimi incrociarono quelli della piccola stella di mare e non si sa se fu la luce del sole o i loro sguardi ma qualcosa scattò, e l’acqua, le rocce, le alghe, le sogliole e persino la vecchia murena si resero conto che qualcosa era successo… una luce… una magia che poche volte succede agli essere viventi, ma quando accade è per sempre. Mille anni dopo… un bambino cresciuto che amava il mare con un microscopio guardò dei granelli di sabbia… e meraviglia tra la sabbia c’erano una piccola stella marina ed un cuore cristallizzati, perché l’amore quello vero è per tutta la vita ed oltre…
Sei ancora lì, m’è passata la furia omicida di ieri sera, quando mi ronzasti in un orecchio mentre sul divano guardavo un programma con cuochi stellati che propinavano ricette belle all’origine, quand’erano buoni piatti popolari, prima di diventare degli orribili ”gourmet”… cavolo, ci ricasco come al solito, cambio continuamente discorso, capacità di concentrazione di un pioppo.
Ricominciamo.
Sei ancora lì, ora ti sei appoggiata ad uno stipite della cucina, ti muovi lentamente, sei vecchia, stai pensando alla tua vita di merda, che per te comunque è stata positiva, in giro all’aria aperta, finché ieri hai iniziato a sentire freddo, ormai è dicembre, ti giri verso di me, cerchi di farmi pena?
Pensi mi sia passata? Forse hai ragione, ti vedo quasi con affetto mentre inizio a prepararmi la colazione, prendo lo zucchero dallo sportello, lo richiudo, solo un piccolo movimento, ti senti di casa? Mentre infilo l’orzo nel microonde mi ronzi un ultima volta, volevi ringraziarmi? Non l’ho apprezzato, mi giro, prendo lo scacciamosche e con un colpo secco ti getto nell’organico, fine dell’amicizia, addio.
Ce lo hanno proprio insegnato,
con tutte le precauzioni,
stando bene attenti,
senza sbagliare.
Ce lo hanno insegnato
come un complotto,
perché era una
voce sola.
Appena svoltato l’angolo
non potevi sfuggire,
era una ridondanza
l’eco ritornava.
E intontite come la ninfa
ci sembrava di non
avere scampo,
la verità pietrificava
le domande.
Comunemente accettata,
buon senso popolare,
le brave ragazze
fanno questo.
Diffidenza, distanza,
ritrosia.
Dire no, stare alla larga,
aver paura.
Perché non avevamo
capacità di giudizio,
ingenue se non sciocche,
fiduciose o sprovvedute,
l’altro era un nemico
da cui guardarsi.
E le nostre emozioni
giù nell’esofago,
non contavano,
non servivano
perché erravano.
Bisognava capire,
capire le intenzioni
e poi scappare,
fuggire perché tanto
lo scopo,
lo scopo era uno solo.
Ma allora
com’è che intorno
a me le altre erano poi
più scaltre?
Com’è che loro
erano brave,
brave ad occhieggiare
brave ad ammiccare
e brave a sculettare?
Stupida ragazza,
adesso l’ho capito,
ho messo insieme
i pezzi,
e adesso l’ho capito.
Funziona sempre uguale,
moneta bifacciale,
ci sono due realtà
realtà nel buio
e ombra
e opposta nella luce,
e quello che si fa,
si fa ma non si dice.
Male inguaribile della natura umana è, secondo gli antichi sapienti, l’errare verso le più fallaci forme della felicità, fino a corrompere l’animo con un’insaziabile volontà di male. E Cristo stesso non ricevette morte e scherno per la redenzione che rendeva? Da sempre, dunque, gli uomini sono inclini al male più che al bene.
Ma di più i Siciliani, il cui animo pare forgiato nelle fiamme spietate dell’Etna. Ci abbracciammo e per un istante fu come se vedessi nei suoi occhi tutto il rammarico per non avermi potuto dare maggiori segni della sua benevolenza. Poi si voltò indietro, nascondendo lo sguardo, come cercando tra i ricordi, e d’improvviso sparì a bordo della nave. Le operazioni di imbarco si protrassero fino a tarda notte. E io presagivo già in qualche modo oscuro che non l’avrei mai più rivisto, perciò tornai a Palermo serbando un’angoscia infinita.
Ormai sedata la rivolta, un inconsueto silenzio attraversava le strade, come quando le bestie, stanche della strage e sazie di molta preda, tacciono nel protratto riposo in fondo a qualche tana.
In queste indecise giornate di autunno mi ritrovo a pensare,
a pensarti e la testa, oltre al cuore, mi fa male.
Come non sentire il peso di tutte queste scelte vissute e principalmente subite…
Come non sentire la voglia di urlare e scappare e correre fino a rimanere senza fiato e senza ricordi…
Ma la mia anima,
cucita e rammendata,
sa bene quale è il suo posto,
quali sono i suoi compiti.
Tornerà il tepore della primavera
e il caldo sole dell’estate.
Devo solo attraversare questo nuovo, insolito e freddo inverno.
Oggi cjò voja dè jòcà cò lè pàròl, scùsàtème sì scrìvo còm mè pàr, che cazz n’torno c’è là desolazzion er futuro è n’cert e buio più dè la not e che cazz la gente nun ride più,la gènt lè preoccupà, nun sà più che fà, là vìòlènz àncòr nùn è fìnì, ma seccono voi n’giovane che pò penzà? Penza che stò monno l’è pazz e nun c’è stà gnent dà fà allor dè nòt sè là spass cò la mòvìdà e chì s’è vist, s’è vist, ma io oggi vòjo jòcà e lancià n’appel a tutti li scrittor, lì poet, tutta gent chè cò la pen cè sà fà, nnàmo dàtève dà fà, scrivete quello chè vèdè ma fàtèlo cò ironic, leggiadric, simpàtic e còr sòrris, pure voi jòcate cò lè paròl dìmo bast à là trìstè e alla demorallizzàzziòn, l’è mònd ancòr nun è finìì mica stàm all’àpòcàliss e che cazz, daje n’pò scrittòr vòi cjavete avùt le bùs dè cul dè scriv bèn pròvàm a règàlà spèrànz e òttìmìsm e sè la gènt ride màgàra vivranno mejo la jùrnà, mò nun ròmpète er cà e sì pòtète fàte i brav, là gènt vè ringràzzìerà e forze nù pizzico dè fèlìcìtà àrìtòrnèrà.
Guardo un fiore
in questo appassito novembre
che versa lacrime di pioggia
per il ricordo
loro.
Non è il colore
né l’odore
che mi sovviene
e mi ripercuote,
ma il pallore
e la durezza di sassi
che si arrovellano
e rotolano
verso la valle spenta
della mancanza.
Rimembrare è dolce
è la vita che ritorna
e si fa ammirare
in sprazzi di luci e gioie,
miracoli quotidiani passati
ma tornati a interrogarmi.
Non risponderò mai
così quelle domande,
nostalgie di un tempo che fu
potranno tornare
a tacere la corda vocale,
a palpitare
nel mio centro
e a sospirare per me
se mi addormento.
Io sono la Bellezza.
Ma non quella bellezza
che vi appare appena si pronuncia questa parola.
Non quella che vi mostrano dagli schermi
non quella a cui vi educano costantemente.
Sono la vera Bellezza.
Non ho bisogno di rossetto,
anche se lo metto
neanche di tacchi a spillo,
anche se li metto.
Scelgo di metterli.
Mi voglio più alta per vedere
la piccolezza d’animo che dilaga
il vero virus senza cura.
Mi voglio truccata
perché il mio vero viso non lo meritate
almeno, non tutti,
vi mostro ciò che vi sazia
e le mie rughe a chi ha fame come me.
Fame di verità.
Sono bella nel mio modo di pensare
nel mio modo d’amare
nel mio modo di perdonare
e concedervi di respirare accanto a me.
Mi inquinate l’orizzonte
mi macchiate la serenità
di volgare pretesa di superiorità.
Sono la Bellezza
che vi si siede accanto
e vi accarezza per guarirvi.
Porgi l’altra guancia
e apprezza. Impara.
Impara!
