Voglio continuare così
voglio entrare nelle stanze della poesia
e rivedere i tuoi occhi
voglio fuggire via
andare in direzione contraria
dimenticando il mondo.
Voglio arrivare a sfiorare le nuvole.
Non mi servono aerei
o navicelle spaziali.
Per toccare il cielo
mi bastano le tue mani.
Formiche che marciano, che sfilano ignare,
guardate, osservate da occhi curiosi,
che pongono ostacoli che disfano tracce.
Cambiano strada, perdono rotta,
hanno uno scopo dettato dall’alto,
la loro linea è continua ed eguale
non c’è un senso all’infuori di essa.
Vita di gruppo, vita sociale
C’è un’unica mente, regina totale
Ad essa si affidano svolgono un compito
preciso e reale.
Ma cosa succede
se il comando è impazzito,
se la mente suprema
è nefasta e cattiva?
L’uomo formica, si adegua, si adatta,
rimanda al suo gruppo coscienza di sé.
È solo un ordine e viene eseguito
l’individuo è formica non prevale il suo sé.
La tribù è attaccamento,
società primordiale
al di fuori di essa c’è morte sociale,
ma il gruppo è vitale, e nessuno prevale,
ognuno è se stesso forzuto di sé
si dona nel gruppo ma non perde il suo filo
regala le immagini scavando emozioni
e dopo risale col suo stesso sorriso.
Festante cicala, bussa
da noi, noi ti apriremo
e ti accoglieremo,
la morte civile è lontana
per te, noi non temiamo
la tua frivolezza
freddo è l’inverno,
lo allieterai con il tuo canto.
Il sogno è un segnalibro interiore
da ritrovare in pagine
che ancora non conosco
di un libro immaginato
che mi sottrae all’inganno
del tempo materia viva
a cui non so prestare le mie mani
un mondo sempre estraneo e ingannato
dai miei fantasmi della meraviglia
queste lingue che portano
sono passate e mie
in quel mondo ogni morte
è impossibile
come lo è riscriverla
io sono il sognalibro
la vita è il libro altrove
Io l’ho pagata cara
la mia libertà
e tu?
Ce l’hai una libertà?
Oppure con i tuoi soldi
sei riuscito a comprarti
solo una nuova forma
di schiavitù?
Io l’ho pagata cara
la mia libertà
e tu?
Abbasso lo sguardo
quando mi perdo nel vuoto
[che non trovo
e delle pozzanghere
scorgo il cielo
Strana cuna
di pioggia rafferma
che dell’ampio distesa
dentro il concavo abbraccia
[unita nella stretta
per non perdersi nell’estensione
dell’universo l’abbondanza
Prendiamoci una pausa
Dal vociferare
Dalle contingenze
Dalle file
Dal rumore assordante
Salviamo un’ora
Un tempo
Nostro.
Siediti con me
All’ombra di un albero.
Parlami di un fiore
Guarda c’è una coccinella
Che spicca il volo
E si posa su un filo d’erba!
E quelle nuvole
Di ovatta
Che giocano con il vento?
Una foglia si stacca dal ramo
Cade lenta
Non ha fretta
Era un germoglio
Ora ha tanti colori
Ed è serena
Nel ricongiungersi
Con la terra.
Ho preso una penna e un foglio bianco per scriverti, per raccontarti quello che ho visto oggi al tramonto, ma non potevo diluire il mio sguardo in queste inutili parole, allora ti ho parlato, sottovoce per non disturbare la quiete intorno, mi senti?
È quella siepe in fondo che esclude lo sguardo dell’ultimo orizzonte, e là, oltre ci sei tu, mentre percorri le strade che io non conosco, mentre gli alberi neri del viale in ombra ti proteggono, mentre un solo piccolo spicchio di luna illumina i tuoi occhi, che tanto mi somigliano.
Vorrei cantarti ancora quella tenera dolce canzone, mentre la tua piccola mano cercava il mio viso e io il tuo caldo sorriso.
Passa il tempo e non si cura di tutto o forse di niente, ma so che ci attraversa, a volte crudele, altre ci accarezza.
Se piango ora è solo per bagnare la terra arida di quel campo di papaveri rossi dove imparammo a volare.
Non passerà mai
questo senso di perdita
che sempre affiora
in ogni momento
di tante giornate.
Un angolo nel cuore
dove un’onda marina
rincorre la riva
senza infine morirci.
Un frutto non colto
rimasto sul ramo.
Un amore sognato
mai forse vissuto,
divenuto rimpianto
ancor più che ricordo…
Nel mio giardino c’era solo erba alta.
Le tue parole come punti di rottura
Hanno tracciato linee di cammino.
Linee come lame oltre la vendetta
Un passo avanti sui rasoi delle mie colpe,
Brancolare sulla densità di macerie
Che nemmeno sospettavo
Scelte scartate modellate
Midollo vibrante compatibile al trapianto.
Ci siamo messi in salvo
Dalla consapevolezza dei nostri errori
Trapiantato rabbia e chiodi
Seminato amori ed espedienti.
Forte nell’arte di arrangiarmi
Ho coltivato l’armonia nell’esperienza.
Le tue parole sono cresciute come canzoni
all’impazzata
Sbocciate distorte di impoetica responsabilità.
Le tue parole trascinate da attenzioni ricambiate
Hanno ricucito trame di cambiamenti inevitabili.
Le tue parole danneggiate e riplasmate alla fine per me hanno fatto germoglio.
È fiorito il mio giardino dei colori dell’incongruenza.
Ho avuto paura
per troppo tempo.
E quando il troppo
diventa troppo troppo
cerco di scrostare un po’,
per rivedere di che colore sono fatta.
Mi ricordo che ero multicolore.
Adesso mi rintano
per non far vedere il mio grigiore.
Per non intristire il cielo.
Per non toglierti un sorriso.
Per non diventare trasparente,
invisibile.
Attraverso stanze del tempo
cercando di non sbattere le porte,
di non far rumore.
Capita di specchiarmi
di fermarmi
di cercarmi
e di capire che mi sono persa.
Capire che è tempo
di uscire dall’immagine riflessa,
alla luce del sole.
Di lasciarmi piovere addosso
la vita
e sentire colori
nelle vene.
Seduto sulla sponda
Di una ferita
Col tuo secchio pieno
di sassi da gettare
In quel discorso
D’ acqua scarlatta,
Non è gettando pietre
che edificherai la cicatrice
Ritrovandoti sempre al delta o
Su quei ponti di sutura
Fragile a
Contemplare le due rive,
Col tuo carico di sogni
Per infrangere il
Battesimo invincibile
Dell’acqua, a
Reinventare il fiume e
Il suo discorso.
Forse il vento ti ha portato il mio saluto questa mattina.
Se così è stato tu sappi che sono stato io ad averglielo chiesto.
L’ho fatto perché sa esser più leggero di ogni mio gesto quando carezza i tuoi lineamenti senza sfiorarti, mentre a me per riuscirci servon le dita.
Ho chiesto a lui perché sa chiuderti gli occhi quando ti sfiora scavalcando la sciarpa,
mentre io non posso farlo senza usare le mani.
L’ho chiesto a lui, perché io devo sussurrarti con dolcezza ciò che può cantarti senza usare la voce.
Allora ieri, pensandoci, verso mezzanotte, quando soffiava freddo
mentre fumavo e sembrava fosse arrabbiato, gli ho detto:
“Va’ da lei domattina, mentre aspetta il pullman, e sii gentile.
Spostale i capelli come faccio io, poi scavalca la sciarpa e sfiorale il collo.
Lei chinerà la testa verso destra, a quel punto tu allontanati di colpo.
Stringerà gli occhi, fermati per un secondo e guardala.
Mi raccomando, non te ne innamorare.
Se sarai fortunato sorriderà.
Soffierà fuori il fumo della sigaretta, e con lui un po’ di tensione.
Tu sposta via il fumo in fretta e poggiati sulle sue labbra.
Solo per un attimo, e solo per farmi un favore mi raccomando.
Sono geloso.
Va bene?
Facciamo così?
E poi, poi lasciala andare.
Lascia che sia.
Io tanto sarò qui ad aspettare serenamente.
Magari malinconico e sicuramente triste.
Ma so che tu capirai.
E che senza bisogno di chiedertelo,
con un soffio, la riporterai da me.”
Ecco, sono lì ma,
riconosco tutti tranne me!
Capisco la reazione tra le pareti,
il parere che consumano ricordi,
ma tra tutti gli sguardi non mi trovo.
Allora!? Quindi lasciamo stare il cosa eravamo,
essendo stati lasciati soli.
In fondo gli incontri si tracciano,
dal “Non sarà mai”, come seme,
dal pensare ad altri scenari, per scappare,
dal risultato è comunque questo presente, qui.
Soli? Perché inconsapevoli di essere simili.
