La mano fiera e possente
Di un guerriero della terra,
Che ha smosso e scosso
Per la sua famiglia.
L’occhio calmo e sempre presente
Di un animale sicuro e vigile,
Che ha rasserenato e dato forza
Per la sua famiglia.
La lingua silenziosa e saggia
Di una spada pronta e nel fodero,
Che ha catturato l’anima ad ogni intervento
Per la sua famiglia.
Il cuore gentile e determinato
Di un uomo di altri tempi,
Che ha sorretto pesi indicibili
Per la sua famiglia.
Ora che sei terra e Terra, pervadi
Le fibre di ogni nostro pensiero
E da lì ci darai forza,
Dall’angolo più dolce del nostro cuore.
Voglio scrivere la storia che nessuno ha mai scritto.
Scrivo la storia dell’uomo che vuole scrivere la storia che nessuno ha mai scritto.
Non è questa.
Io voglio scriverla e dunque non sono del tutto vero, la scrivo in onore della forza della volontà, non è la mia verità e non è la mia storia.
Voglio comunque scriverla perché tanto la mia verità l’ho già scritta altrove.
Voglio comunque scriverla ma lei non vuole farsi scrivere.
Scrivo allora la storia di una storia che non vuole farsi scrivere, e dell’uomo che scrive la storia che non vuole farsi scrivere.
Scopro che in tanti modi è già stata sempre scritta.
Cerco tutti i modi in cui non è stata ancora scritta.
Scrivo la storia dell’uomo che cerca tutti i modi in cui questa storia non è stata ancora scritta.
Trovo un solo modo, è questo.
Cerco tutti i modi per raccontare che ho trovato un solo modo ed è questo.
Trovo un solo modo per raccontarlo.
È questo.
Briciole, non posso lasciarti nient’altro.
Ho troppa fame.
La penna che abbraccio con due dita è cenere sdraiata sulla porcellana.
Le ringhiere tagliano l’orizzonte, l’orizzonte è un cortile quaranta metri più in là.
Il Super Tele sfida il sole, un piede vecchio dieci anni lo calcia in alto.
Per un attimo è l’eclissi, poi il pallone ricade, rimbalza, ma lo stesso piede di dieci anni e qualche secondo ci riprova.
La porta aperta, i suoi capelli neri e lunghi, il suono della minestra di patate cipolle e carote cade nel piatto.
Dopo torno, ma ora devo andare.
Dall’altra parte del mondo la parte di mondo che non conosco sta gonfiando accumulatori.
I capelli corti e neri, tuta blu, minestra di patate carote e cipolle per pranzo.
Il baracchino nello scaldavivande brontola, il suo stomaco pure, la sirena non ha suonato, non può ancora mangiare.
Buona la minestra.
Devo andare a controllare, chissà, il Super Tele potrebbe vincere di nuovo.
Mi guarda mentre lava i piatti e dice che devo lavare le mani e la bocca, è ora di riposare.
Non voglio adesso, dopo, non sono stanco.
Va a lavarsi le mani, il grasso scende nel lavandino, può mangiare, la sirena ha suonato.
Vorrebbe riposare.
Adesso no, forse dopo.
Sogno il Super Tele.
Lava i piatti, precarica le sacche da venticinque litri, spolvera la credenza, prepara il bancale, è stanca, è stanco.
Io sogno il sole le ringhiere e il Super Tele.
Briciole, non posso lasciarti nient’altro.
Ho troppa fame.
Vorrei raccontarti tutto, davvero, ma ho fame.
Una fame vecchia come i bambini che non smettono di ricordare.
E vorrei finire di raccontartelo questo ricordo, davvero.
Ma voglio ti resti la fame.
Nelle nostre parole
iniezioni di paura
i gesti di affetto
come armi letali
È l’era della distanza
non toccare nessuno
proteggilo dal male invisibile
che potrebbe viverti dentro
Ma un giorno arriva lei
con il suo sorriso di sempre
quello morbido che ha inventato
proprio per me
Ma poi arriva il suo
gesto rivoluzionario
le sue braccia mi dicono
sfidiamo il timore
per conquistare la vita
È tutto qui il senso
è tutto qui il coraggio
è l’incapacità di resistere
a un abbraccio
Vivo di un bianco sentire
ovattato da una fine coltre
di fredda sensazione
a riparare l’anima mia
Vivo di un muto sentire
ché le parole sono volate via
in questo gelido vento invernale
dove non so
se è stagione
o cuore
Le montagne
sono screziate cornici
che rompono l’orizzonte
Spezzo questa giornata
camminandoci
pesantemente sopra
Dovrei scrivere, dovrei scrivere di cosa passa attraverso i luoghi e il tempo, di cosa ci faccio qua appesa ai giorni, di come il cielo grigio invade il mio umore, e di perché, perché le cose mutano senza che me ne accorga, a volte non le sento. Ma non me ne voglia l’Esistenza, se mi stanco e di ripetermi in questa giostra, mi mortifica e mi annoia.
Forse c’è un luogo che accoglie i pensieri scaduti, quelli che non tornano se non li cerchi e che tornano se li dimentichi.
Ma vabbè, domani, anche oggi sarà già ieri, e mi sembra che non sia accaduto nulla, mi sento trasparente e la danza di ombre e luci mi attraversa ed io immobile ancora non mi addormento.
E quindi ecco, è davvero inutile, dovrei spiegarmelo che a rincorrere la notte e il giorno rischio l’immobilità, e poi cammino e guardo sopra, lassù chi corre son le nuvole che disegnano presagi, che parlano d’infanzia e scolpiscono memorie, sì, come un giorno che ho creduto fossero cadute al suolo e che tutto fosse ormai perduto.
Ma già, che sto dicendo?
In fondo nulla di quel che davvero vorrei dire, ma i giorni son per questo ancora a venire per protrarsi tra la sabbia, nella clessidra capovolta, che cade e si rigira e ancora, ancora come prima.
Ognuno ha il suo ritmo
la scia di un miracolo
tatuato sulla pelle
una speranza indistruttibile
un’assenza
una persona cara
lacrime da versare
Siamo molto più di un numero
siamo storie destinate all’eterno
siamo amori indimenticabili
ognuno ha il suo cielo
e altezze irraggiungibili
da acciuffare
ognuno ha una follia cara
da assecondare
I bambini che siamo stati
urlano per rifiorire
al cospetto
di noi adulti rassegnati
È quando vincono i bambini
che il mondo cambia
Il cuore non ce lo potranno mai
rubare
Nessuno riuscirà a soffiarci
questa nostra ostinata voglia
di rimanere nel profondo
incalliti sognatori.
“Da quando vieni qui
non hai sorriso mai”,
mi dice lei
col suo camice bianco.
Ma cosa ne sa lei.
Come si può sorridere
di fronte a tanta fragilità
che ci circonda e ci confonde.
Fragilità dentro,
fragilità fuori.
Corpi gracili,
vite sottili,
impigliate
in un volo senza ali
che fa precipitare
in abissi senza fine,
senza desideri e prospettive.
Un viaggio a ritroso
fino a svanire
in una trasparenza che lascia nell’impotenza.
Che ne sa lei dei miei sorrisi
quelli che solo tu conosci.
Quelli che restano ancora un po’
quando vai via
e quelli che attendono te
per tornare a rifiorire.
E allora diglielo tu
che io sorrido.
Diglielo tu che so essere felice
con te
quando mi risollevi dall’abisso
dove anch’io spesso finisco
e mi conduci per mano
in luoghi meravigliosi.
È lì che conosco la vera leggerezza,
quella dei pensieri.
Ed è a voi, anime fragili,
che la vorrei donare
insieme a delle ali
per poter volare.
La notte è l’ultimo abito
di questa umanità
ferita, elegante.
La notte è l’abito buono
per onorare il pianto, l’attesa.
Tra i merletti ruvidi tenuti
tra le mani va in scena
il pianto degli uomini,
la nostalgia delle trine bianche
cadute da un armadio,
finestra spalancata
sull’azzurro del mare.
Ho una Mito dell’Alfa Romeo, un’auto di media cilindrata e di medie dimensioni. Onestamente, non sono brava a parcheggiare e ho difficoltà quando lo spazio a disposizione non è granché.
Quella volta il parcheggio era quasi saturo, l’unico posto vuoto che avevo trovato, dopo un interminabile avanti e indietro tra le file a pettine, si trovava tra due Suv giganteschi. Roba da deserto del Sahara, che in città serve solo ad ostentare la propria, vera o presunta, agiatezza.
Così m’infilai in quel pertugio, naturalmente non al meglio, dato che non riuscivo neanche ad aprire la portiera e il sedile accanto era occupato da due pesanti scatoloni, che m’impedivano di usare l’altra portiera. Perciò mi toccò di rifare la manovra, uscendo abbondantemente per prendere meglio le misure.
Avevo appena inserito la retromarcia, quando una Smart s’infilò rapida nel varco, lasciandomi letteralmente di sasso. Abbassai lesta il finestrino e gridai al conducente, che intanto era già sceso dall’auto, che quel posto era mio e che avrebbe dovuto accorgersi della retromarcia inserita.
Che vuole che le dica…”, mi rispose, “…per me lei stava andando via. Si cerchi un altro posto”. E s’avvio lungo il parcheggio senza neanche darmi il tempo di rispondergli. Fu un attimo. Dalla retromarcia passai alla prima, poi, accelerando e sgommando, alla seconda e, prima che se ne rendesse conto, lo feci volare fin sopra il tetto di uno dei Suv. Gli occhi vitrei fissavano dall’alto la sua Smart.
Mi disturba
il rumore del mondo
le mani inutili
che incombono
sulle mie danze sciamaniche.
La storia è vecchiume
che tace,
il passato una giovane malinconia
che ispira:
non cedo il marchio immemore
del forestiero,
non c’è prezzo per un’anima
se anche un diavolo ti vende la sua.
La mia solitudine
gravida di canzoni giace
sparsa fra le vostre ossa ma
ma ciò che mi spetta
di ossa e canzoni non è abbastanza:
per questo parlo, perché
lassù qualcuno mi ama
quaggiù qualcuno mi cerca,
così tra loro il mio tacere è
il silenzioso confine
di quell’attesa sensuale
fra il silenzio
e il rumore del mondo.
Restava a guardare il mondo sfrecciare con impazienza su strade umide
Lei sentiva il cuore di tutti uscire dal petto e correre più veloce di un fuoristrada
Guardava il suo interno specchiarsi su ogni vetro su ogni goccia
Vedeva da una parte i suoi doni
dall’altra le paure da superare per raggiungerli
Una vecchia le passa accanto spingendola e sorridendo poi
di tale umiliazione
Così quell’ignoto passante le mostra la ferita profonda da affrontare
La sente brillare
Vede i suoi doni al di là dell’asfalto
Forza coraggio volontà tutti seduti sulla panchina di sosta fermi lì da sempre
In mezzo a dividerli la strada trafficata
e impaziente e pazza
E lei non era pazza semplicemente folle semplicemente viva
Nessuna striscia pedonale
nessun semaforo nessun permesso
Attraversò senza timore l’asfalto come passare dentro ogni auto
con forza sapiente e dolce
rinacque prepotente come pianta officinale
tra le crepe di un marciapiede
ricongiunse finalmente se stessa
Sei tu
che cingi il ciel
di rubino al vespro.
‘Sì come madre
con occhio
tra il rosso e il bianco
m’entri dentro,
mi leggi con pupilla nera
e mi colori
d’azzur l’amore
e il moto interiore
prima della più scura
vetusta sera.
Di calamo è la tu’ puntura
al cor,
a volte mesta, a volte fiera
che mutua
questo dolor
nel momento stesso
che la mia mano corre muta,
e il foglio di cruda emozion
s’impressa.
Dorme sordo
sotto coperta
di virgole e punti
tra le parole,
lontan dalla greve interna ressa.
Mi vesto ogni nuovo giorno
di parole antiche.
Amore, amicizia, onestà, correttezza, dignità, fiducia, rispetto, pazienza, calma e gratitudine.
Parole sulla bocca di tanti,
ma nel cuore di pochi.
Parole conosciute da tutti,
ma usate il più delle volte impropriamente e indegnamente.
Parole che insegnano.
Parole che segnano con inchiostro indelebile
l’anima di chi crede ancora nella forza e nella bellezza di un sorriso
e di un fiore che sboccia nonostante le avversità.
Quando le cose
perdono il loro peso,
ti sei guadagnata lo spazio.
Un cerchio intero di gioco.
Là dentro sei inattaccabile.
Le persone all’infuori
deformi di normalità
guardano allibiti.
Ti trovi estranea
alla loro somiglianza
con un modello fatto a timbro.
Il tuo colore esce dai bordi.
Ribelle disegno.
Nessun foglio ha potuto domarti.
Adesso che puoi giocare
a fare la bambina felice
hai macchiato le pareti
e tinto i vestiti di allegria,
pois di cielo e merletti bizzarri.
Stranamente felice.
Finalmente ti sei trovata.
Senza Peso.
